Janet Sobel: la donna rimossa dalla storia

2023-01-05 18:46:14 By : Ms. Jojo Zhu

di Sara Concato · 19 Aprile 2022

La storia è sempre stata raccontata così: nel 1947, Jackson Pollock, pionieristico pittore americano il cui solido nome fa rima con la verve della sua immagine virile, finì per stancarsi della meticolosa finezza di attente pennellate che aveva fatto la storia dell’arte. Messi da parte setole e cavalletto, afferrò dei bastoncini e iniziò a lanciare vernice direttamente su una tela stesa sul pavimento. Con un colpo di polso galoppando intorno al lavoro come il cowboy di un ranch che tiene legato un vitello fuori controllo – non tanto dipingendo un’immagine passiva ma prendendone al laccio una indomabile – Pollock scoprì una nuova modalità di energica espressione artistica, con la forza e la spavalderia che si addicevano al selvaggio west del suo Wyoming natìo e alle vaste pianure di fulmini secchi della sua psiche sfrenata.

«Durante l’estate del 1947», scrive Camille Paglia in Seducenti immagini. Un viaggio nell’arte dall’Egitto a Star Wars, eccellente indagine sulle pietre miliari della storia della creazione di immagini, «ci fu una svolta decisiva: inventò il suo caratteristico dripping, lo stile destinato a trasformare l’arte contemporanea». Quella di Pollock era una tecnica istintiva, impulsiva che non pianificava accuratamente la sua prossima mossa – come afferrare una bottiglia, prendere un sorso, pulirsi le labbra sulle nocche screpolate, senza preoccuparsi minimamente di chi guarda. Un dipingere libero da forma e formalità, il tipo di pittura che solo un americano, un vero americano, avrebbe potuto inventare.

Solo che non fu così*. Contrariamente al mito consolidato – un mito accelerato da articoli sensazionalistici delle riviste Time e Life nel 1949 e 1956 con titoli impressionanti come «Jack the Dripper» [Jack lo Sgocciolatore] e «Is he the greatest living painter in the United States?» [È lui il più grande pittore vivente degli Stati Uniti?] – il caratteristico stile pollockiano non è stato affatto una sua invenzione, bensì l’intuizione di un’altra artista, la cui storia straordinaria turba e ravviva la nostra comprensione di una delle forme più celebrate della storia culturale recente. In poche parole, l’arte moderna ha un problema. Il suo nome è Janet Sobel.

La vera storia della nascita sia della tecnica del dripping sia della pittura cosiddetta all-over (in cui la superficie di un’opera viene affrontata olisticamente da ogni direzione), non è meno eccezionale della famosa favola: nel 1938, una nonna quarantacinquenne di origine ucraina, senza studi artistici alle spalle, iniziò a giocherellare con i materiali di pittura del figlio e cambiò il corso della storia culturale. Nata Jennie Lechovsky in una città ebraica nell’Ucraina dell’est nel 1893, Sobel fuggì la violenza dei pogrom antisemiti (dove suo padre fu ucciso) e arrivò a New York con la madre e tre sorelle nel 1908, all’età di 15 anni. Gran parte dei tre decenni successivi li avrebbe dedicati all’accudimento dei cinque figli che ebbe con Max Sobel, incisore e fabbro, che sposò l’anno dopo essere arrivata a Ellis Island. Solo quando il figlio diciannovenne Sol, scoraggiato nel suo divenire artista, rifilò alla madre i suoi materiali alla fine degli anni ’30, Sobel iniziò lei a sperimentare la pittura.

«C’è una storia che dice», secondo lo storico dell’arte Gail Levin «che iniziò a disegnare sopra alcuni schizzi che Sol portò a casa dalle sue lezioni di arte… Un’altra dice che Sol, ancora alle superiori, vinse una borsa di studio alla Art Students League, che, contro il volere della madre, cercò di abbandonare. Quando tentò di convincerlo a continuare, secondo quanto si dice lui esclamò: ‘Se ti interessa così tanto l’arte, perché non dipingi tu?’». Janet aveva un talento naturale. In lei non c’era un senso delle regole che andava smantellato – e aveva la temerarietà tipica di chi era sopravvissuto ai traumi della persecuzione religiosa e alle avversità della Grande Depressione – perciò Sobel in maniera spontanea si è messa a inventare l’arte praticamente da zero.

La prima ondata di opere è caratterizzata da una poesia primitivista di forme oniriche che fluttuano su paesaggi incantati con un fascino levitante che richiama le visioni mistiche di Marc Chagall, la cui impetuosa immaginazione folclorica era stata forgiata anch’essa dalla violenza dei pogrom. Ma non ci vuole molto perché la narrazione figurativa ceda il passo a una più ambigua cadenza espressiva amorfa che va oltre gli impulsi surrealisti fino alla pura astrazione. Senza alcuna fedeltà a una qualche scuola artistica né pregiudizi riguardo all’appropriatezza dei materiali, Sobel iniziò a giocare sia con ciò che un dipinto può dire sia con come può dirlo. Usando mezzi non convenzionali come un contagocce di vetro per spruzzare la vernice o il forte risucchio di un aspirapolvere per trascinare gli schizzi umidi come fili di ragnatele che nessun pennello tradizionale poteva tessere, attaccava la superficie delle tele stese a terra, orchestrando un lirismo liquido di versamenti, schizzi e spruzzi, una cosa mai vista prima.

Il risultato erano lavori come Milky Way, 1945 – una sinfonia silenziosa di delicate spire di smalto e schizzi crescenti che Sobel creò due anni prima che Pollock lanciasse il suo primo stridìo di vernice o iniziasse a produrre le sue caotiche sonate cosmiche come Galaxy (1947). Alcune coincidenze creative possono essere attribuite alle irrintracciabili sinergie dello Zeitgeist – immaginazioni contemporanee casualmente sincronizzate con gli stessi stimoli culturali. Ma non è questo il caso. Pollock fu profondamente influenzato dal lavoro di Sobel, e la storia conserva le ricevute. Quasi nello stesso momento in cui Sobel iniziò a sperimentare la creazione di immagini, il figlio Sol iniziò ad attrarre l’attenzione sui suoi notevoli sforzi, raggiungendo chiunque, dallo stesso Chagall all’influente collezionista di arte Sidney Janis, che si sarebbe dimostrato determinante nell’affermare la reputazione di tutti, da Willem de Kooning a Mark Rothko a Pollock.

Nel 1944, Sobel stava già diventando una formidabile presenza fissa sulla scena artistica neyorkese. Quell’anno debuttò con una mostra personale alla Puma Gallery sulla 57th Street – una mostra che raccolse grandi elogi per la «sorprendente sofisticatezza» delle opere e l’immaginazione «davvero illimitata». Janis (che predisse che Sobel «prima o poi sarà probabilmente conosciuta come una degli importanti artisti surrealisti di questo paese»), incluse il suo lavoro in un’illustre mostra, Abstract and Surrealist Painting in America, che quell’anno girò il paese.

Poco dopo, il profilo di Sobel ricevette un’ulteriore spinta nel 1945, quando la leggendaria promotrice d’arte Peggy Guggenheim la incluse in un’illustre esibizione, The Women, presso la sua galleria Art of the Century, per poi offrire a Sobel una mostra individuale l’anno seguente – un evento che indiscutibilmente avrebbe portato (se ancora non era successo) la sua pratica innovativa e i suoi dipinti all’attenzione di Pollock. Scrivendo anni dopo nel 1955, il critico d’arte Clement Greenberg ammise di aver visitato la mostra con Pollock e che entrambi avevano «notato uno o due curiosi dipinti in mostra al Peggy Guggenheim realizzati da un’artista ‘primitiva’, Janet Sobel (che era, ed è ancora, una casalinga che vive a Brooklyn)». Mettendo da parte l’istinto derisorio di Greenberg a sminuire lo status e l’impresa di Sobel («curiosi», «primitiva», «casalinga»), quello che prosegue ad ammettere pone oltre ogni dubbio il significato duraturo dell’incontro: «Pollock (e io stesso) ammirò quei quadri piuttosto furtivamente… L’effetto – ed era il primo vero ‘all-over’ che avessi mai visto… – era stranamente piacevole. Più tardi Pollock ammise che quei dipinti lo avevano colpito».

Perché «furtivamente»? Dopo tutto, è una parola che riconosce un livello di colpa e di segretezza all’atto di guardare. Nonostante Pollock avesse ammesso che l’opera di Sobel «lo aveva colpito», Greenberg non riesce a non sminuire l’importanza di quell’impatto riconosciuto. Greenberg prosegue insistendo che quando Pollock «iniziò a lavorare sistematicamente con grumi e chiazze di vernice a smalto, i primissimi risultati che ottenne avevano un’audacia e una portata impareggiabili da qualsiasi cosa mai vista» nell’opera di pittori precedenti, inclusa Sobel. «Benché selezioni Sobel come preceditrice di Pollock», osserva la storica dell’arte Sandra Zalman, «Greenberg afferma che Pollock l’aveva già superata».

Per fortuna abbiamo di più per misurare «audacia e portata» dei risultati rispettivi dei due artisti – a questo stadio formativo nello svelamento del dripping –, non solo la valutazione sospettosamente «furtiva» di Greenberg. Messo a confronto con il precedente Milky Way di Sobel, Galaxy di Pollock è nebuloso e disordinato, come qualcuno che stia ancora cercando la propria voce o che la stia coprendo con un mucchio di dubbi. Dopo tutto, il dipinto di Pollock è letteralmente una copertura. «All’inizio, in un quadro come Galaxy», spiega la sua biografa Deborah Solomon, «Pollock ha schizzato vernice per nascondere un’immagine che era cominciata come una figura umana». Per Sobel, l’invenzione del dripping è stato un rituale di rivelazione del sé. Per Pollock, almeno inizialmente, la tecnica era di imitazione e celamento del sé: una maschera.

Qualunque sia il giudizio sui meriti relativi di Pollock e Sobel a questo punto nel racconto dell’arte moderna, come direbbe la storia, Pollock si sarebbe dimostrato nella posizione più forte per far avanzare la tecnica del drip painting, che fosse o meno di sua invenzione. Proprio mentre Sobel a New York guadagnava popolarità come una forza creativa – impresa non facile per un’artista donna della sua come di qualsiasi generazione – le sue condizioni d’improvviso mutarono drasticamente, e in modi che di fatto la rimossero completamente dal mondo dell’arte. Nel 1946, lo stesso anno in cui inaugurò una mostra personale alla galleria Art of the Century del Guggenheim, suo marito Max spostò la famiglia da Brooklyn a Plainfield, in New Jersey, per avvicinarsi alla sua impresa di bigiotteria. Non sapendo guidare, Sobel si trovò presto tagliata fuori dalle fluttuazioni della scena artistica in cui era appena diventata un’importante attrice.

A peggiorare quello svantaggio geografico ci fu la decisione presa l’anno seguente dalla sua più grande sostenitrice, Peggy Guggenheim, di trasferirsi in Europa, chiudendo dietro di sé le porte della galleria Art of the Century – la principale tribuna di Sobel. Oltre al danno la beffa: un principio di allergia a un ingrediente della vernice obbligò Sobel a ricorrere a materiali come i pastelli che non favorivano la tecnica del dripping, costringendola praticamente ad abbandonare quell’innovazione. Già nel 1948, Janet Sobel, morta nell’ombra vent’anni dopo, era di fatto scomparsa dal mondo dell’arte. Ma non senza lasciare tracce. Il suo genio immortale si può ancora mappare negli innumerevoli grovigli e nelle infinite spire di colore con cui Pollock procederà a interconnettere le sue tele più famose – intrecciando eternamente lo spirito di Sobel nel firmamento intricato della storia dell’arte.

Traduzione di Sara Concato via bbc.com (*articolo pubblicato l’8 marzo 2022)

Immagine di copertina via facebook.com/ArtDailyNewspaper 

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