Ciclismo e morte, una storia di attrazione inquietante | L'Ultimo Uomo

2023-01-05 17:30:50 By : Ms. ZSCMALLS ZHONGSHENCHUANG

Storia della strana e inquietante attrazione del ciclismo verso la morte.

I ciclisti corrono “per abbreviare la loro agonia”, i ciclisti corrono “a tomba aperta”, i ciclisti “sfidano continuamente la morte”. Questo “sport individuale di squadra” si alimenta dei suoi stessi miti, di quelli che hanno avuto un percorso lineare, ma pure di coloro che sono andati in fuga dalla vita. La “malamorte”, come ha scritto Gianni Mura su “Repubblica” nel memorabile pezzo uscito dopo la scomparsa di Marco Pantani, ha una lunga tradizione tra i ciclisti, quasi centenaria. Morti strane, brutte, insensate, suicidi. Storie ammantate di una tristezza esasperante che stride con la gloria di quegli stessi uomini in salita, stravolti dalla fatica o sotto le intemperie.

Quattro dei primi sette vincitori del Tour de France non muoiono di morte naturale. Lucien Petit-Breton, François Faber e Octave Lapize: tutti morti sul fronte della Prima Guerra Mondiale. Un altro, René Pottier, al conflitto planetario neanche ci arriva: se ne va prima, nel 1907, sei mesi dopo aver conquistato la Grande Boucle. Più che vinta, dominata, cinque tappe su tredici; in una, addirittura (leggenda o meno), la quinta, tra Grenoble e Nizza, pare che si fosse fermato a bere una bottiglia di vino in una locanda, tanto era il vantaggio sull’immediato inseguitore.

Le storie dei primissimi Tour e dei primissimi Giri sono annebbiate dal mito: tappe di 12-13 ore, le classifiche generali non basate sul tempo, ma sulla posizione – arrivare secondi in volata o per distacco era uguale. È l’era dei “Forçats de la route”, i “Forzati della strada”; un’espressione coniata dal giornalista Albert Londres, uno dei primi “suiveur” della storia, all’edizione del Tour 1924. Uomini che si sciroppano ogni giorno per un paio di settimane tappe di 300-400 chilometri, con l’idea titanica di unire la Francia, anche oltre i confini. Nel 1911 si “sconfinerà” in Alsazia-Lorena, all’epoca sotto controllo prussiano, provocando una discreta arrabbiatura del kaiser Guglielmo II. I corridori sono considerati degli eroi, oltre che dei simboli, e non si fanno scrupoli a ricorrere a sostanze chimiche per trascendere i limiti dell’umano. D’altronde partono di notte e arrivano il giorno dopo. 

Quella di René Pottier è la prima “malamorte” della nostra storia. La prima morte strana, brutta, triste e un po’ misteriosa. René parlava poco ma si esprimeva in modo incredibilmente creativo sulla bicicletta. Eccellente scalatore, primo sul Ballon d’Alsace al Tour del 1905 (oggi c’è un monumento che lo ricorda), la prima grande salita della storia della corsa, ma capace pure di fare secondo a una Parigi-Roubaix. Il 25 gennaio del 1907 si è impiccato a una trave nell’officina della Peugeot di Levallois-Peret, alle porte di Parigi. 

Su quella stessa trave di solito lasciava la bicicletta, René, tesserato appunto come professionista – uno dei primissimi nella storia – dalla Peugeot. Lo trova un collega, non c’è nemmeno una lettera a spiegare quel gesto, a conferma della riservatezza di Pottier: suo fratello Andrè, corridore anche lui. «Ah, ci sono i Pottier, oggi non c’è storia», diceva chi vedeva i due alla partenza delle corse. La spiegazione è immediata: “Una delusione d’amore”. Eppure René è sposato, la moglie è incinta (la figlia nascerà a giugno e si chiamerà proprio Renée, con la “e” femminile in più), quale delusione? È stata lei a tradirlo? Le voci corrono incontrollate. Alcuni giornali parigini, invece, parlano di crollo nervoso. Depressione è una parola ancora tabù, da Vienna arrivano notizie su un tale dottor Sigmund Freud, la psicanalisi, il lettino, l’ipnosi, ma niente di più. 

Nel 1924, invece, l’edizione dei “Forçats de la route” è più movimentata. È la prima volta che vince un italiano “vero” (Maurice Garin era stato il primo in assoluto, ma era mezzo francese), ed è Ottavio Bottecchia. Il secondo episodio, all’epoca clamoroso, è la rivolta, se così si può chiamare, di un pugno di corridori contro l’organizzazione del Tour, nella persona del direttore Henri Desgrange, il capo indiscusso della corsa. 

A cavalcarla non sono gregari qualunque, ma il campione in carica, Henri Pélissier, spalleggiato dal fratello Francis e da Maurice Ville. “Un colpo di testa? No, ma non siamo dei cani”, tuona Henri, dentro una brasserie di Cherbourg dove per passare bisogna farsi largo tra la folla. Lui e gli altri due si sono ritirati, questi ultimi solidali con il leader. 

Tutto nasce per una questione di maglie: siccome le tappe iniziano di notte, Henri è solito partire con due indumenti addosso, per prevenire il freddo. Le regole tuttavia sono chiare: bisogna indossarne solo uno. E al campione in carica questa cosa non piace, lo va a dire a Desgrange, annunciandogli il ritiro dalla corsa dopo che un commissario, in seguito a una caduta, è andato a perquisirlo corporalmente per controllare che non avesse due magliette addosso. In una delle immagini più celebri del giornalismo sportivo, Henri Pélissier nella brasserie tira fuori una sacca e la apre davanti agli occhi di Albert Londres, suiveur del Petit Parisien che sta prendendo nota per il suo mitico reportage “Les forçats de la route-Tour de France, tour de souffrance”: «Vedi questa? Cocaina. E questo, cloroformio. Pillole? Vuol vedere anche delle pillole? Lei non ha idea di cosa sia il Tour, è un calvario. Accettiamo i tormenti, ma non le vessazioni». Un’ammissione di doping in piena regola, e in pubblico. Tanto all’epoca non è reato, è qualcosa che non fa parte ancora del gergo. «Corriamo con la dinamite addosso», scherza Francis, l’altro Pélissier.

Il personaggio da copertina comunque è Henri. Forte e ribaldo, istintivo, un vero purosangue: in questo senso agli antipodi rispetto a Pottier. Dopo il ritiro troverà il tempo addirittura di scrivere un’autobiografia, a puntate in stile feuilleton, sul settimanale Miroir des sports , dal titolo Roman de ma vie . 

Grazie ai soldi risparmiati dal padre aveva potuto comprarsi la sua prima bicicletta, e dare così l’esempio ai fratelli. Non solo Francis – che abbiamo già conosciuto -, anche Charles, recordman per tappe conquistate in una sola edizione del Tour, otto nel 1930, a pari merito con Merckx nel 1970 e nel 1974 e Maertens nel 1976. Quello di Henri Pélissier è un palmares di tutto rispetto: una volta campione di Francia, una Milano-Sanremo, due Parigi-Roubaix, tre Giri di Lombardia, più il Tour del 1923. Fenomenale, osannato dal pubblico e praticamente richiamato per acclamazione sulle strade della Grande Boucle nel 1925, nonostante il ritiro polemico dell’anno precedente. Anche Desgrange si era dovuto arrendere all’evidenza. Come si faceva a non volerlo? 

Un romanzo con un ultimo capitolo tragico: “La sua fine non ha sorpreso nessuno”, titola Paris Soir dopo che l’1 maggio del 1935, a 46 anni, Henri viene ammazzato a colpi di pistola dall’amante, al termine dell’ennesima lite tra i due. Roba rusticana, storie d’amore e coltelli nello scenario della villetta-bomboniera di Dampierre-Yvelines, banlieue parigina accanto a Versailles, in un bel verde con tanti alberi di mele. Un quadro idilliaco, in teoria, e invece sfondo di una storia sordida. “La maison du malheur”, “La casa dell’infelicità”, viene subito ribattezzata dai rotocalchi scandalistici, che sguazzano su una storia così torbida. 

Due anni prima, in quella stessa villetta, ordinata e luminosa, si era suicidata la moglie di Pélissier, Léonie, con un colpo di rivoltella in testa. Un gesto mai chiarito, ma che aveva segnato profondamente il campione, rimasto solo con la figlia Jeannine. 

Henri per consolarsi inizia così a frequentare una ragazzina di vent’anni, Camille “Miette” Tharaud; è una delle tante “groupie” che girano intorno al mondo del ciclismo, ambiente dove Pélissier è rimasto come direttore sportivo del Club Sportif International. È probabile che non sia nemmeno la prima amante della sua vita, lui uomo brillante e belloccio ancora a 46 anni, però Miette si stabilisce nella villetta di Dampierre (dove è rimasta Jeannette, la figlia dell’ex corridore, quasi coetanea dell’amante) senza la minima intenzione di farsi mettere i piedi in testa. 

Non è una relazione facile, Pélissier è comunque un vedovo che non ha ancora elaborato il lutto. Ha iniziato anche a bere con maggior frequenza, perde la testa per un nonnulla. Miette si sente sempre più sola e chiama a farle compagnia la sorella, Jeanne. Qualche screzio, fino all’esplosione definitiva: l’1 maggio del 1935 Henri ha invitato a cena due amici parigini, ma l’atmosfera è pesante, sia con Miette che con Jeanne, che ormai convive lì. A tavola volano provocazioni e insulti, su argomenti banali (il menu, i vestiti del piccolo figlio degli ospiti), la discussione dal soggiorno si sposta in cucina. Pélissier prende a schiaffi Jeanne, la accoltella al volto, le rompe addirittura un dente e la prende a calci in pancia. Miette va per difenderla, capisce che non è aria e così, in pieno trambusto, corre in camera da letto per prendere il revolver di Henri da un cassetto. Torna in cucina, gli ospiti venuti da Parigi provano a frenare la rissa, è probabile che si stiano chiedendo “Ma dove diavolo siamo finiti?”. 

Un colpo, due, alla fine saranno cinque. Basta il primo, l’unico a segno tra quelli sparati da Miette mentre l’amico di Pélissier tentava di fermarla bloccandole il braccio. L’ex corridore crolla a terra, i polmoni perforati, un lago di sangue, è morto subito perché il proiettile ha reciso un’arteria entrando da una spalla. «Non volevo ucciderlo, ma solo difendere mia sorella», dirà al processo Camille, che si beccherà un anno di prigione per legittima difesa. 

Così muore uno dei più forti corridori francesi della prima metà del XX secolo. Nel 1927 era andato, ironia della sorte, al funerale di Ottavio Bottecchia, suo ex compagno di squadra e vincitore del famoso Tour del 1924 (bisserà anche nel ’25). “Botescià”, come lo chiamavano oltr’alpe, era antifascista convinto, frequentatore (pare) di circoli proletari in Francia. Il friulano, trovato agonizzante in un campo vicino a casa, a Gemona, secondo la versione ufficiale sarebbe caduto durante un allenamento. Nessun testimone, nessuna conferma ufficiale. Per altri, invece, la sua morte era da attribuire a qualche squadraccia fascista, oppure al racket delle scommesse clandestine, o alla vendetta di un contadino dopo un ennesimo furto d’uva. Una fine mai chiarita per uno dei “forzati della strada” più celebri e osannati, in Italia, con Alfredo Binda e Costante Girardengo. Il primo italiano ad espugnare le strade francesi. 

“Testa di cuoio” non si rialza più

Il Tour de France del 1947, il primo dopo la Seconda Guerra Mondiale, con il Paese ancora pieno di rovine e di cose da aggiustare, non poteva che vincerlo un corridore che con gli incidenti e i contrattempi aveva stretto una specie di implicito accordo: un ciclista bruttino a vedersi, alto poco più di un metro e sessanta, forse meno, uno scricciolo, orecchie a sventola, faccia furbina, carattere da vendere, testardaggine da mettere invidia a un mulo.

E una marea di soprannomi: “Tete de cuir” (Testa di cuoio), “Trompe-la-mort” (L’inganna-morte), “Le nain jaune” (Il nano giallo) e “Biquet” (Capretto, ma anche il vezzeggiativo per dire “Tesoro”). Jean Robic è stato uno dei vincitori del Tour meno pronosticabili nella storia della Grande Boucle, ma anche uno dei più amati dal pubblico. Forse perché la gente si è sempre presa a cuore gli sfigati (Poulidor-Anquetil 0-5 in quanto a Tour vinti, ma come affetto nemmeno da paragonarli) e i malandati, e il piccolo bretone, anche se nato nelle Ardenne dove il padre era andato a lavorare dopo la Grande Guerra, rientrava nella categoria. 

A parte il fisico quasi da scherzo della natura, la vita in corsa aveva già messo a dura prova Robic: nel 1944 e nel 1946 era caduto due volte alla Parigi-Roubaix. Frattura del cranio, la prima: ma gara terminata nonostante i dolori lancinanti e una perdita di coscienza. Frattura del cranio anche nella seconda; stavolta niente striscione dell’arrivo, c’è anche una piccola emorragia di mezzo, sangue dal naso, impossibile guidare la bici con una mano e con l’altra tenersi il fazzoletto come tampone. 

«Signor Robic, il consiglio sarebbe di smetterla con le corse, ma se proprio vuole proseguire dovrà mettersi un casco per proteggersi da un’eventuale altra caduta che rischia di esserle fatale»: così il medico che lo visita. Nasce in quel momento la leggenda di “Testa di cuoio” (o “di vetro”), dal materiale del casco di cuoio che indosserà sempre durante le gare. In mezzo, grandi risultati nel ciclo-cross e soprattutto, da outsider totale, il Tour de France del 1947.

Quella Grande Boucle è priva di grandi nomi: i big italiani, da Coppi a Bartali a Magni, per dire, non ci sono, e quindi la squadra azzurra (si va ancora per team nazionali) è composta da “seconde linee”. Anche se stiamo parlando di seconde linee di livello, come Aldo Ronconi, che indosserà la Maglia Gialla per due tappe, od Olimpio Bizzi. La Francia punta tutto su René Vietto, bello e forte, “Le roi” è il favorito d’obbligo. 

Jean Robic non è nella Nazionale ufficiale, è stato costretto a ripiegare nella squadra regionale dell’Ovest, una delle tante che completano il lotto dei cento partecipanti alla corsa: prima della partenza del Tour, comunque, promette alla neo-moglie Raymonde che le porterà in dote come dono di nozze nientemeno che la Maglia Gialla finale, al velodromo del Parco dei Principi. 

Sembra una sparata da bullo, ma se c’è un corridore in gruppo tenace e volitivo, capace di sovvertire i pronostici, quello è il minuscolo bretone. Robic comincia sottotraccia – scrive anche una lettera alla madre quando è indietro in classifica generale: “Dì a tutti lì che ho il morale alto!” – per poi esplodere nell’ultima settimana, con la spettacolare vittoria in solitaria a Luchon, dopo essere passato per primo in cima a quattro “mostri” pirenaici: Peyresourde, Aspin, Tourmalet e Aubisque. Scalatore nato, “Testa di cuoio” deve mettere del piombo in una delle sue borracce per andare più veloce in discesa; nell’altra di solito tiene un potente cocktail di caffè, o té, e Calvados, l’infuocato liquore della Normandia, diffusissimo anche in Bretagna. È un corridore completo, in realtà, ciclocross a parte, va bene anche a cronometro. 

Eppure a una tappa dal termine in vetta alla generale c’è Pierre Brambilla, ufficialmente italiano, ma nato in Svizzera e residente in Francia. L’agguato, tuttavia, è dietro l’angolo, nell’ultima frazione, che parte da Caen, in Normandia. Vietto, il favorito, si è sciolto lungo il cammino, crollando sui Pirenei mentre Robic volava. Il migliore nella Nazionale ufficiale è Edouard Fachleitner, quarto, ma davanti a lui c’è “Testa di vetro”, che ha già in mente tutto. Diabolico, come il nome della squadra per cui è tesserato: Génial Lucifer.

Pierre Brambilla al Tour de France del 1947.

Anni dopo forse si sospetterà che a dare una mano ai francesi fossero state anche le moto, lì per lì ciò che si vede è l’attacco dei due connazionali, anche se in squadre diverse, sulla salitella di Bonsecours, in realtà è una tappa pianeggiante, dove si potrebbe altrimenti guadagnare terreno? Brambilla salta per aria, non è nemmeno amatissimo dai suoi compagni (casualmente prenderà la nazionalità francese di lì a poco), rimangono in pochi verso il Parco dei Principi. Tra Robic e Fachleitner iniziano trattative ammantate di leggenda: «Io ti aiuto a vincere il Tour, ma tu mi dai 100mila franchi», «Ok, d’accordo». 

A Parigi vince un altro di quelli che era andato via a Bonsecours, Lucien Teisseire. “Testa di vetro” indossa la Maglia Gialla per la prima volta nella sua vita, ma nel giorno più importante; nella generale secondo “Fach”, Brambilla addirittura terzo, cottissimo, nell’ultima tappa piglia un quarto d’ora. Raymonde è lì, la promessa si è avverata, ma ne manca ancora una, donare “Le maillot jaune” alla chiesa di Sant’Anna a Auray, in Bretagna, alla protettrice di tutti i bretoni. 

L’idillio del “Nano Giallo” terminerà presto. Negli anni successivi al Tour poca gloria se non sulle montagne (Ventoux 1953, un giorno di nuovo leader della generale), il volto del ciclismo transalpino diventa Louison Bobet. In compenso molte altre fratture: una mano, due volte la clavicola, una scapola, una vertebra spostata e un femore. Questo il bollettino medico di una carriera baciata dalla buona sorte in pratica solo nel luglio del 1947.

Finite le copertine, arriva il buio. «Mi do da fare tanto sulle salite pirenaiche, rischio la vita non per avere dei momenti di gloria, ma perché per un mese sto lontano da casa, dove ho una moglie insopportabile. D’altronde anche i grandi navigatori erano così: se scoprivano nuovi continenti tanto meglio, ma almeno staccavano un po’ da una società insensata e soffocante», diceva già negli ultimi tempi di professionismo, altro che dono di nozze. Aveva conosciuto Raymonde durante un periodo di degenza in ospedale ad Amiens; da lei avrà tre figli, poi divorzierà iniziando una lunga e snervante battaglia sugli alimenti. 

Robic perderà tutto, compresa la brasserie di Montparnasse che aveva cominciato a gestire assieme alla moglie, dopo il ritiro, a 40 anni, nel 1961. Finisce a campare in una bettola, aiutato da un ex collega, Eugène Letendre, per guadagnarsi da vivere farà addirittura il camionista e l’attrazione da circo: lui sui rulli a sfidare altri corridori improvvisati, o gente del pubblico che paga 100 franchi per provare a batterlo. 

Tanto la sua vita ha avuto l’apoteosi in un Tour de France, così la morte arriva sempre a causa della Grande Boucle. È il 1980, quell’edizione l’ha vinta l’olandese Joop Zoetemelk: il 6 ottobre, all’albergo “Le Gonfalon”, 110 coperti nel ristorante, c’è una grande festa con i trionfatori presenti e passati della corsa. L’ha organizzata proprio Letendre, corridore modesto ma buonissimo imprenditore, che ha convinto Robic a partecipare. La mattina, una pedalata di 30-40 chilometri in gruppo, e poi a mangiare. Jean si presenta, c’è pure Pierre Brambilla, i due scherzano ripensando al 1947, sono invecchiati tutti e due, bei ricordi. Alzano tutti un po’ il gomito, Robic compreso, ultimamente non si tira più tanto indietro, d’altronde metteva pure il Calvados nelle borracce. 

La serata si allunga fino a oltre la mezzanotte, ciascuno ha una stanza riservata nell’albergo, compreso “Biquet”, la numero 6. Ecco, Jean è venuto accompagnato da una signora, per tentare di dimenticare Raymonde, gli scazzi, i litigi, le difficoltà economiche e morali del dopo-professionismo; ma la ragazza non c’è, è sparita, bisogna andarla a cercare. Barcollando di camera in camera Robic la trova impegnata con un altro, e allora esplode, va fuori di sé. Vorrebbe andare via, l’albergo è a Germigny-L’Eveque, vicino a Meaux, a nord-est di Parigi. Tutti lo implorano di non fare fesserie, di calmarsi e di andare a dormire, è notte fonda. Lianor Sanier, una signora che gli ha procurato qualche mini-contratto pubblicitario, si offre di accompagnarlo in macchina verso la capitale. “Biquet” si mette la testa sotto l’acqua fredda e dice che adesso sta bene, può guidare. René Vietto, il suo rivale del 1947, per l’ultimo disperato tentativo: «Resta a dormire, domani mattina ci ripensi». Testardo come sempre Robic prende la macchina, un’Audi 100, e fila verso Parigi. 

All’altezza di Claye-Souilly si schianta contro il rimorchio di un camion lussemburghese, a 60 chilometri orari: ciclista e donna morti sul colpo, con cadaveri ricomposti a fatica all’obitorio. Forse un colpo di sonno, o forse più semplicemente l’acqua fredda in testa non aveva attenuato gli effetti della sbronza. Niente più caschi a proteggerlo dalle cadute, fine della corsa. A meno di un’ora da Levallois-Perret, dove si era suicidato Pottier. 

«La Seconda Guerra Mondiale finì davvero solo quando Robic arrivò da vincitore al Parco dei Principi», scriverà tanti anni dopo lo scrittore, sceneggiatore e giornalista Alphonse Boudard. Era quasi coetaneo di “Testa di vetro”, l’aveva visto, l’aveva applaudito: la Francia gli deve molto, nel racconto epico del ciclismo dell’immediato Dopoguerra. 

Si dice che un giorno Raphael Geminiani, futuro allenatore di Jacques Anquetil e all’epoca in gruppo, al termine di una tappa avesse messo in dubbio le capacità di protezione del casco di cuoio di Robic: per tutta risposta il bretone avrebbe preso un martello per mollarsi un potente colpo in testa. E mentre il sangue colava sul mento e sul collo, “Trompe-la-mort” non aveva detto una parola per qualche secondo, prima di uscirsene con un “Vedi?”. 

L’anima inquieta di Luis Ocaña

Non c’è vera gloria senza rivali. Nemmeno i più grandi sarebbero diventati così grandi se non avessero avuto qualcuno o qualcosa di altrettanto massiccio contro cui scornarsi. A volte, anzi a voler guardar bene quasi sempre, lo sconfitto è diventato più simpatico del trionfatore, specie in uno sport di pura fatica come il ciclismo. Il caso più clamoroso e celebre è senza dubbio quello di Luis Ocaña, passato alla storia come “L’anti-Merckx” per eccellenza, colui che per primo e più a fondo mise in crisi il “Cannibale” belga, ovvero il più forte, forse, ciclista di tutti i tempi. 

È una storia tremenda, da eroe tragico. Nasce nel 1945 a Priego, uno sperduto paese nell’altrettanto sperduta provincia di Cuenca, Spagna centrale, molte mesetas (le pianure tipiche della penisola iberica, aride e secche) e qualche montagna, calanchi dove emergono borghi fieri ed arcigni. È uno dei sei figli di un repubblicano convinto, un “rosso”, che in quell’epoca di franchismo nascente non è ben visto, e che quindi è costretto a fare le valigie in direzione nord, Catalunya (valle d’Aran, puro stato brado), e poi scollinamento dei Pirenei nel Gers, l’antica Guascogna, terra di campagne sterminate, saliscendi e, per chi se lo può permettere (quindi di sicuro non la famiglia Ocaña), foie gras a volontà. In tanti hanno percorso lo stesso tragitto, per andare a cercare fortuna lontano dal regime franchista, ma nessuno di questi emigrati andrà forte in bicicletta come il figlio del signor Luis Ocaña: Jesus Luis Ocaña, che passerà alla storia con il suo secondo nome, identico a quello del padre, da cui erediterà anche una salute malconcia e una prematura morte.

È “Lo spagnolo di Mont-de-Marsan”, di mestiere fa il carpentiere e il falegname, inizierà a parlare francese solo a 12 anni. Va fortissimo in bicicletta, la usa per andare a lavorare: la primissima squadra che lo tessera è di lì, di Mont-de-Marsan. Corre con falso nome per non avvertire il padre, un tipo piuttosto autoritario che lo preferirebbe in fabbrica piuttosto che sulle strade. 

Luis Ocana ed Eddie Merckx.

Lo scopre Pierre Cescutti, un personaggio unico nel suo genere, un po’ come Luciano Pezzi è stato per Marco Pantani: combattente nelle Brigate Internazionali durante la Guerra Civile Spagnola, prigioniero in un campo di concentramento, sarà uno dei pochi a entrare nel bunker di Hitler dopo la sua morte («Quante bottiglie di vino pregiato là dentro, la prima sbronza della mia vita», ricorderà), ricevendo poi dal generale De Gaulle la medaglia al valore al termine del secondo conflitto mondiale. 

La bici è il mezzo con cui si muove Luis, rapido, impavido, sfrontato: sorride poco, vive come chi ha sofferto la fame. Cescutti lo porta con sé a Mont-de-Marsan, gli trova un impiego, sempre come carpentiere, gli paga una stanza per dormire e si accorda con i padroni del ragazzo: due o tre pomeriggi alla settimana per allenarsi. 

Nel bellissimo Ocaña del giornalista Carlos Arribas, unica biografia del campione di Priego, la tesi, peraltro condivisa da molti addetti ai lavori, è che Luis sia stato uno straordinario talento che ha scelto il mondo del ciclismo sempre con una certa ossessione per i soldi. Ancora più che per la gloria, per il denaro e per l’orgoglio. La rabbia di chi arrivava dal nulla, dalla povertà assoluta, dalla sofferenza e non era abbastanza ricco di famiglia e al contempo dotato di enorme talento come un Anquetil (il suo vero idolo, diventeranno anche molto amici) o un Merckx. 

Ecco, “Il Cannibale”, antagonista e convitato di pietra della nostra storia: non ci fosse stato lui di mezzo Luis avrebbe conquistato ben più di un solo Tour e una sola Vuelta? La risposta si trova nelle circostanze, negli episodi. La caduta sul Ballon d’Alsace alla Grande Boucle del 1969, quando pur non in grado di andare avanti, coperto di sangue e sporcizia, si fa trascinare di puro orgoglio dai compagni di squadra fino al traguardo, senza riuscire nemmeno a pedalare, e poi si ritira. 

Ben più celebre l’episodio del 1971 quando, con 7 minuti e 23 secondi di vantaggio sul belga nella classifica generale, e in vista di una tappa nella “sua” Mont-de-Marsan per l’apoteosi, lo spagnolo si schianta, di nuovo, contro un muretto nella discesa del Col de Menté, sotto un diluvio infernale. 

Vuole tenere botta al “El Puta”, come lo chiama lui, che sul Portet d’Aspet aveva attaccato una, due, fino a tre volte, ricevendo sempre risposte convincenti dal suo “nemico”. Vuole entrare per primo in Spagna, in quella tappa di confine. Non sta bene, altrimenti pochi giorni prima non avrebbe buscato quasi nove minuti sulle Alpi, e prima ancora un minuto sul Puy-de-Dome («Ci ha trattati come El Cordobès, ci ha toreati tutti», sbuffa Merckx al traguardo di Les-Orcières). 

La strada pirenaica è diventata un fiume, i corridori devono frenare con i piedi perché le ruote pattinano, ma non c’è nulla da fare contro il destino. Ocaña viene travolto sulle montagne che conosce meglio di chiunque altro, da altri corridori nella caduta, Zoetemelk, Agostinho, persino da un motociclista della tv francese, ritiro immediato, lacrime, fratture ovunque: Merckx, che pure lui era caduto ma era stato in grado di rialzarsi, si rifiuta di indossare la Maglia Gialla il giorno dopo per rispetto del rivale e conquisterà, alla fine, il terzo dei suoi cinque Tour, di sicuro quello dove ha sofferto maggiormente. «Oggi hai vinto il Tour?», chiede un giornalista al belga, all’arrivo a Luchon, «No, oggi l’ho perso». 

Quando sarà invece Ocaña a trionfare nel 1973, con rabbia, agguantando sei tappe e rifilando un quarto d’ora al secondo, Bernard Thevenet, quella sarà una vittoria “monca”, con Merckx assente, a prepararsi per la Vuelta che ovviamente porterà a casa, davanti allo stesso Luis. E quindi avrà sempre un retrogusto amarognolo, anche perché da lì in avanti i successi si conteranno sulla punta delle dita, come in una sorta di appagamento, raggiunta la maglia gialla. Qualche tappa qua e là, qualche piazzamento, ma molti ritiri e molte cadute, quell’ombra di sfortuna incombente che persino nelle prime tappe del Tour del 1973 l’aveva sfiorato, con un cane ad attraversargli la strada, tuttavia senza conseguenze.

Secondo spagnolo dopo Bahamontes a conquistare la Grande Boucle, Ocaña sarà sempre visto come “lo straniero”. Non correrà mai, ad esempio, per la Kas, la più importante squadra spagnola; al massimo con la Fagor, formazione più piccola nella sua prima stagione da professionista, nel 1968. 

In compenso verrà indicato chiaramente come il successore di Jacques Anquetil, quando nel 1970 passerà alla Bic, il top del ciclismo francese, dove il bretone aveva conquistato cinque volte il Tour. Tuttavia sempre e comunque da spagnolo, perché così voleva rimanere. «Ehi, Luis, però mai come da quando ti abbiamo messo sotto contratto stiamo vendendo tante penne a sfera in Spagna, grande, sei la nostra fortuna”» gli diceva lo sponsor principale, la Bic. E allora come fare? Diventare francese, passare un anno sotto il servizio militare? «Ma no, ce ne sono già tanti, meglio uno spagnolo, dà un aspetto più internazionale al Tour e alla squadra stessa», si sentiva rispondere, con le scartoffie che tardavano sempre ad arrivare, chissà se volutamente. 

E avanti di questo passo, a testa bassa, senza veri amici o alleati nel gruppo: «Cosa fate? Correte per arrivare secondi? Merckx va attaccato, basta succhiarmi le ruote», con rabbia, la sua ragione di vita, pochi calcoli. E il fastidio contro “i vecchi”, Gimondi e Poulidor, che corrono al risparmio solo per il piazzamento. 

Un carattere duro e ingestibile, che pagherà una volta mollata la bicicletta, soprattutto quando tenterà la carta da direttore sportivo. Un fiasco completo: due anni di malintesi e situazioni imbarazzanti, ma sempre nel mondo della bici, l’unico possibile per Ocaña, che fosse anche da commentatore, per la radio o la carta stampata. Denaro, bicicletta, voglia di rimanere in un ambiente poco adatto a lui. 

È già malato: da piccolo, la tubercolosi, una polmonite a toglierlo dalla lotta del Tour 1972, gli incidenti stradali dove, in uno di questi, perde addirittura l’occhio sinistro, e infine l’epatite C, presa forse durante una trasfusione di sangue, che non gli lascia scampo. «Non ho più il fegato, ho poco da vivere ancora», confiderà agli amici. E inevitabilmente si lascia andare, arrivando persino, lui figlio di un fuggitivo della Guerra Civile Spagnola, imparentato con i “rossi”, ad appoggiare il Front National di Jean-Marie Le Pen, perché “dà tranquillità”.

A casa, dove ha un pastore tedesco che ha chiamato Merckx, altri guai: il rapporto ondivago con i figli (uno dei quali, Jean-Louis, da piccolo, ammetterà candidamente di tifare per il Cannibale belga perché “papà cade sempre”), con la moglie, Josiane, sposata la notte di Natale del 1966, ma che adesso pare abbia fiutato qualche tradimento del marito. Il cruccio maggiore, però, sono le vigne, la tenuta di 60 ettari di Caupenne-Armagnac dove tenta con risultati scarsi di produrre vino e l’omonimo distillato, “cugino” del cognac. 

Qualche vendemmia che va a farsi benedire a causa del maltempo, e i terreni non sono assicurati, lo scoramento, la sensazione di essere maledetto, probabilmente. Tutto ciò per cui aveva corso, macinando chilometri, rischiando la vita, sente che sta per andare in fumo; gli amici che lo vedono pulire i vetri della sua Jaguar con le sue maglie gialle si preoccupano, ma non arrivano a immaginare ciò che succede il 19 maggio del 1994, quando a nemmeno 49 anni Luis va nella sua tenuta e si uccide, seduto sulla poltrona, sparandosi alla tempia dopo aver ingoiato una forte quantità di alcolici, come stabilirà l’autopsia. In realtà, stando a Josiane, già due giorni prima ci avrebbe provato ed erano dovuti arrivare i gendarmi. 

Pochi giorni dopo il suo suicidio, Luis doveva andare a Bologna per seguire, come commentatore, il Giro d’Italia.

«Il destino di un uomo è nel suo carattere», diceva il filosofo Eraclito. Si potrebbe affermare che non poteva che finire così, nonostante subito dopo il suicidio qualcuno provi a buttare lì l’ipotesi di omicidio, di Josiane intenzionata a uccidere il marito. Tutte storie. 

Ocaña è stato un titano del ciclismo, uno esagerato in tutto, nato per andare in bici: un metro e ottanta circa, capacità polmonare di oltre sette litri (quella di Pantani, per dire, era di 5.6), forte in montagna e competitivo a cronometro, in pratica una macchina perfetta. Eppure c’era qualcosa di oscuro nella sua figura. Nel tempo libero dipingeva quadri: gli occhi, i capelli, le sopracciglia, folte, il volto allungato e poca propensione al sorriso. Una sola delle sue maglie gialle non ha fatto la fine dello straccio; è stata regalata a Pierre Cescutti, quasi un secondo padre. “Era abituato alla sofferenza, quindi non poteva che andare forte in bicicletta”, spiegherà, poco prima di morire, nel 2015, a 94 anni. 

Negli anni con Merckx il rapporto si è ricucito. Se in pista il belga era una reincarnazione del padre, l’autorità da abbattere, fuori il “Cannibale” ha persino provato a vendere l’armagnac dell’ex-nemico. 

Dopo il funerale, il corpo è stato cremato: parte delle ceneri a Josiane, un altro po’ a Priego, accanto alla tomba di Luis Ocaña padre. Qualcuno, ma la cosa non è del tutto confermata, afferma che il resto sia stato sparso sui Pirenei.

Il sogno di redenzione del “Chava”

Poche settimane prima della tragica e tristissima fine di Marco Pantani al motel “Le Rose” di Rimini, un caso molto simile a quello del campione di Cesenatico tocca il cuore degli appassionati, soprattutto spagnoli. José Maria Jimenez, per tutti “El Chava”, come il nonno, con la V, anche se qualcuno lo pronunciava con la B, muore ad appena 32 anni: scalatore formidabile, fisico robusto, una carriera spesa tutta nella Banesto, la squadra di Miguel Indurain, che l’ha stipendiato fino alla fine del 2002 (800mila euro l’ultima stagione, una paga da alta borghesia del gruppo), nonostante avesse smesso di correre un anno prima di fatto per depressione. 1Se n’è andato come ha vissuto: all’attacco, improvvisamente», le prime parole della madre Antonia. «È morto mostrando le sue foto agli altri pazienti della clinica dov’era ricoverato», aggiunge la moglie Azucena. 

Chava è morto nella clinica dove stava tentando di disintossicarsi dalla tua vita esagerata e i suoi frutti: la cocaina e l’alcol. «Mi fa malissimo un dente, spegni la televisione per favore», le ultime parole a un compagno di stanza, poi il crollo, la perdita di conoscenza, inutili i soccorsi. 

Jimenez una settimana prima stava pianificando un incredibile ritorno alle corse assieme all’amico di sempre David Navas, ex collega nella Banesto, cresciuti assieme nella provincia di Avila, prodotti della stessa “cantera” di Victor Sastre, papà di quel Carlos che poi nel 2008 avrebbe vinto il Tour de France: «Ho smesso con la droga, David, voglio tornare quello di prima, sono convinto di uscirne, parlane con José Miguel». Dai 70 chili del peso forma era arrivato a 120. 

Il José Miguel in questione sarebbe Echevarri, direttore sportivo della Banesto: una squadra costruita attorno a Miguel Indurain, l’imbattibile, quasi-robotico, cinque Tour de France, due Giri d’Italia, e poi Abraham Olano come fido scudiero, infine Alex Zulle per un paio di stagioni a cavallo del millennio da capitano. E “Chava” battitore libero, perché gli altri costruiscono le classifiche generali con le cronometro, controllando poi sulle salite; quando la strada si arrampica, soprattutto alla Vuelta, non ce n’è quasi per nessuno. 

«Ho squadre che mi offrono un sacco di soldi in più rispetto alla Banesto, potrei anche accettare, ma mi ritroverei due guardie ogni sera sull’uscio di casa a controllarmi. E no, preferisco di no, voglio continuare a godermi la vita», diceva nel 1998, il suo anno migliore (nel 1997, però, era diventato campione di Spagna nella corsa in linea), terzo alla Vuelta con ben quattro tappe vinte, tutte ovviamente con arrivi in salita, sfidando addirittura Olano, il capitano, che conquisterà comunque la corsa, attaccandolo nonostante le gerarchie, quasi come farà Froome con Wiggins al Tour del 2012. Una Vuelta persa nell’ultima cronometro di Fuenlabrada, ultima tappa prima della passerella finale di Madrid: Olano gli appioppa tre minuti e addio sogni di gloria. Paradosso del Chava, fisico da passista e pessimo contro il tempo. 

Nel 1999 è il primo a vincere, in una nebbia fittissima e con un gelo atroce, sull’Angliru, la micidiale salita asturiana con pendenze fino al 23%, staccando Pavel Tonkov in rimonta. E altre tre tappe alla Vuelta del 2001, prima che si spengano le luci. Curioso che Victor Sastre avesse creato la sua “cantera” per allontanare i ragazzi dalle droghe e che poi, anni dopo, un suo allievo fosse finito proprio in quella spirale. 

Però meglio godersi la vita: i famosi giovedì del Chava ad Avila, un bicchiere dopo l’altro, una sbronza dopo l’altra, la cocaina ad accompagnare, da solo o in compagnia, col risultato di finire letteralmente disperso, privo di sensi, in qualche angolo, come un rottame. «All’ultima tappa della Vuelta a Madrid sto sempre in fondo al gruppo, piano piano, così la gente mi vede e mi saluta: tanto davanti vanno tutti fortissimo», diceva. Un tipo estroverso, anche troppo, più torero che ciclista secondo alcuni: finché il fisico e il talento reggono va tutto bene, ma il crollo è sempre in agguato. 

Al netto di alcuni compagni di squadra, più abituati a una vita da atleta, magari non contentissimi di certe abitudini. Loro magari preferiscono farsi controllare sull’uscio di casa, ma vuoi mettere con la libertà di scattare in faccia agli altri, su salite durissime, ignorando certe gerarchie come con Olano?

Il pubblico in compenso lo adora, forse ancora più di Indurain, troppo forte, troppo calcolatore. Di lui il navarro dirà «È un corridore all’antica, non ha vie di mezzo, o va fortissimo o va malissimo». Quando Jimenez parte, con le sue fucilate, petto in fuori, non ha i rituali quasi sciamanici di Pantani (berretto, bandana e orecchino che gli sembrano disegnati addosso), ma fa malissimo ai rivali. I due, lo spagnolo e il “Pirata”, si sfiorano, nel Tour del 2000: nella tappa di Courchevel Marco trionfa, è la sua ultima vittoria da professionista, sembra rinato, e l’ultimo avversario che deve inchinarsi è proprio “El Chava”, pure lui era andato all’attacco in salita, ma non può reggere, e arriverà secondo sul traguardo. 

Moriranno a tre mesi di distanza l’uno dall’altro, in un tragico e beffardo destino. “Emilio – parlando con Unzué, altro direttore sportivo della Banesto –, io non mi vedo vivere fino a settant’anni”, sarà il suo epitaffio, quantomai efficace. A El Barraco, il minuscolo borgo in provincia di Avila che ha dato i natali anche a uno che ha fatto secondo al Tour del 1983 (Angel Arroyo), una statua omaggia da dodici anni il suo figlio più scapestrato e ingestibile. 

Scendere dalla bici: Valentino Fois e Luca Gelfi

Da Torre de’ Roveri a Villa d’Almè ci vuole circa mezz’ora in macchina. Sono entrambe cittadine della provincia di Bergamo, una più verso le Alpi Orobie, l’altra all’imbocco della val Brembana. È una terra di ciclismo, di uomini e di allenamenti che sanno essere durissimi. Quanti chilometri avevano percorso su queste strade Valentino Fois e Luca Gelfi, bergamaschi tutti e due, accomunati da una fine tristissima e tragica. 

Il primo, considerato un grande talento da giovanissimo, secondo al Tour juniores del 1996 dietro solo a Ullrich, compagno di squadra e amico di Marco Pantani alla Mercatone Uno nel 2002, bruciato da tre anni di squalifica per doping: il secondo, gregario in carriera di Mario Cipollini, Franco Chioccioli e Beppe Saronni, buon passistone, vincitore di due tappe al Giro d’Italia del 1990, a Fabriano e a Cuneo (una in linea, una a cronometro, la lunghissima Grinzane-Cuneo di 68 km), una piazza d’onore alla Milano-Sanremo del 1993 conquistata da Maurizio Fondriest, dieci anni di professionismo senza una macchia. Casi agli antipodi, quasi, per una fine tragica per entrambi.

L’abisso di Valentino Fois si conclude il 28 marzo del 2008, a quasi 35 anni. Lo trovano morto in casa, forse edema polmonare causato da un’overdose di droga, le successive analisi diranno, a distanza di mesi, che si è trattato di polmonite. Pochi giorni prima era tornato da una corsa a tappe in Costa d’Avorio, l’ennesimo tentativo di risalita dal tunnel dove si era infilato. È stato tesserato dall’Amore & Vita, l’unica squadra che sembra aver creduto di nuovo in lui dopo tre anni di squalifica per doping, rimediata all’epoca della Mercatone Uno.

«Sì, se sono ridotto così è anche colpa del ciclismo, senza non so stare», diceva, quasi gridava disperato in una straziante intervista alla Gazzetta dello Sport. «Ho problemi di depressione e ansia, sono in cura», «Ho provato la cocaina, ma non sono un tossicodipendente», «Ho vissuto da vicino il dramma di Pantani, ma credo di non aver mai raggiunto il suo livello di disperazione». E poi l’ammissione del doping e un rigetto del mondo del ciclismo: «Il mio unico amico è Pavel Tonkov», con cui si allena nel sud della Spagna. Anche un’intervista video alle “Iene”, per ribadire i concetti, del doping diffuso ad altissimi livelli nel periodo a cavallo del 2000, quelli della prima squalifica (sei mesi), rimediando (almeno, la trasmissione) una querela da parte di mamma Tonina Pantani, infastidita dall’accostamento col figlio.

Nel 2007, sotto effetto di ansiolitici, Fois beve qualche cocktail di troppo e arriva addirittura a rubare alcuni computer nella redazione di Bergamo del “Giorno”. Il giudice lo condanna a cento giorni di reclusione, tramutati in seguito in una multa di 4mila euro. Eppure un anno dopo è di nuovo nel gruppo, con l’Amore & Vita, appunto: Ivan Quaranta, suo compagno di squadra, è tra gli ultimi a vederlo vivo dopo averlo riaccompagnato a casa, dove vive con la madre. Fois cena, poi esce e va in giro per Bergamo fino a oltre la mezzanotte, l’ha fatto tante altre volte, non si è mai negato nulla, fin dai tempi in cui i suoi compagni di scorribande erano (si dice) Bobo Vieri o Pippo Inzaghi; una volta rientrato è nervoso, visibilmente alterato, parla da solo, si addormenta a fatica, in realtà chiude gli occhi per sempre, la madre lo trova morto la mattina successiva. Forse le droghe gli avevano abbassato troppo le difese immunitarie. Ivano Fanini, patron dell’Amore & Vita, che ha stabilito per il team delle ferree regole antidoping, spinto da una pietas quasi cristiana, è a pezzi: «Credevo di averlo recuperato, e per me salvare un corridore è come vincere un Tour o un Giro. Era come un figlio, mi telefonava per ogni sciocchezza. Con la squadra stava bene, stava preparando la Settimana Bergamasca; chissà chi ha incontrato nella sua ultima notte». 

Valentino Fois (foto da Putredine).

Quando muore Luca Gelfi, invece, non è più un corridore professionista da oltre un decennio. Gestisce una squadra juniores e ha un negozio di biciclette, dove lo trovano impiccato, nel retrobottega: è il 4 gennaio del 2009, l’alba di un nuovo anno. Lascia una moglie e un figlio: li aveva salutati dopo pranzo per andare a lavorare, un sabato pomeriggio. E invece non tornerà più. Lo trova un socio del negozio, la domenica, ormai è troppo tardi.

Da subito, come se non si aspettasse altro, si parla apertamente di depressione. Il commissario tecnico della Nazionale, Franco Ballerini (che morirà un anno dopo durante un rally in provincia di Pistoia), ex compagno di squadra di Gelfi alla Del Tongo, è incredulo: «Eravamo amici, non lo sentivo da un po’. Me lo ricordo come un tipo abbastanza introverso, non riusciva a esprimere ciò che si teneva dentro, e al tempo stesso convinto dei suoi mezzi». E una frase, lapidaria: «Questa morte non c’entra nulla col ciclismo». 

Per “l’ultimissimo delfino di Saronni”, come veniva chiamato Luca al suo primo anno da professionista, una fine che stona con la sua vita post-ritiro, la squadra juniores Fratelli Giorgi di cui era tecnico, insomma, non aveva detto del tutto addio a quel mondo. Eppure scendere dalla bicicletta non è una cosa che si digerisce dall’oggi al domani. 

Poteva essere, poteva fare, poteva vincere, poteva un sacco di cose Frank Vandenbroucke, un corridore baciato da un talento troppo evidente, finito nella polvere in maniera così fragorosa da mettere tristezza anche ai non appassionati. 

C’è qualcosa di più deprimente che finire la propria vita in un hotel in Senegal, il Maison Bleue di Saly, 70 chilometri a sud di Dakar, in riva al mare, circondato da flaconi di insuline, confezioni di sonniferi e ansiolitici? Non per il luogo in sé, ma per la differenza tra il prima e il dopo. Un po’ come Marco Pantani, scalatore di montagne e morto in un motel a Rimini a San Valentino. Le montagne di Frank erano le classiche, come la Liegi vinta nel 1999 anticipando ai giornalisti il giorno prima dove avrebbe attaccato, e così fu. Oppure la Gand-Wevelgem del 1998, senza dimenticare i piazzamenti al Giro della Fiandre, due volte secondo. 

Anche il Maison Bleue di Saly, come il “Le rose” di Rimini, non c’è più. Resta la solita litania, vista a posteriori, di questi ragazzi, tutti accomunati dalla medesima linea del traguardo, come un mantra: “Non finirà come Marco, non finirò come Marco”. Rapina finita in disgrazia? Doppia embolia polmonare, l’ultimo certificato medico sul corpo di Vandenbroucke, volato a Saly assieme a un amico per una vacanza. Prostitute, sballi, ambienti sordidi, uno straccio abbandonato, puzza di vomito: non proprio il massimo per uno che voleva tornare a correre.

Suicidio? D’altronde ci aveva già provato in passato, annunciando il gesto quasi pubblicamente, prima di quel 12 ottobre del 2009, l’ultimo giorno della sua vita. Nel 2007, salvato per un pelo dal figlio del suo team manager, Palmiro Masciarelli: una pastiglia dopo l’altra e le vene tagliate, la corsa in ospedale a Magenta, pericolo scampato, ancora. Viveva in casa sua in cerca di pace, quella che cercava dal 2002, da quando era stato arrestato per traffico di sostanze dopanti, tra cui Epo, anfetamine, clenbuterolo e morfina, praticamente un arsenale. “Servono al cane”, la pietosa e improbabile giustificazione. 

Tre anni prima era stato già pizzicato, uscendone pulito, ma licenziato dalla sua squadra, la Cofidis. Stavolta no, sei mesi di squalifica e nuova cacciata, dalla Domo. 

Era arrivato a correre tra gli amatori sotto falso nome, in seguito, nonostante alcuni guai al ginocchio gli impedissero di tornare quello di prima, della Liegi e delle altre 51 gare vinte, un bottino niente male. Comprese due tappe alla Vuelta del 1999, quella del Chava Jimenez sull’Angliru, a Teruel e ad Avila: «Le vinsi da dopato, ma lo eravamo tutti, quindi era stato un successo ad armi pari», avrebbe confessato a pochi mesi dalla morte. Aveva conquistato anche la classifica a punti della corsa a tappe spagnola, confermandosi corridore completo: tre settimane o giornata secca, se VDB era in gara andava considerato tra i favoriti, o quantomeno tra le mine vaganti.

L’ultima parte della vita di Vandenbroucke, dopo l’arresto e il processo, è un susseguirsi di episodi eclatanti, di cadute rovinose e di disperati tentativi di risalita. Come quando nel 2004, chissà se sotto effetto di qualche sostanza, spara in aria nella sua casa in Belgio per risolvere una dura discussione con la moglie Sara. “Volevo solo spaventarla”. 

“Io non sono dio”, è la sua ultima testimonianza, l’autobiografia “a nudo”, come direbbe Baudelaire. È un racconto tremendo, degli inizi con le droghe addirittura risalenti al 1998, ai tempi della Cofidis: un mix di alcol e sonniferi, effetto allucinogeno, “le pot belge” con Philippe Gaumont, suo compagno di squadra. Una dipendenza mai più allontanata. E poi l’amicizia con il “Dottor Mabuse”, Bernard Sainz, tre anni di galera per il medico, in seguito, che gli consigliava di non mangiare nulla prima di una cronometro, e di andare a dormire nudo con una sciarpa attorno al collo. L’ultimo scalino, la cocaina, l’essere un drogato e venire additato come tale. 

Diventato professionista a 19 anni, Vandenbroucke tenta la prima volta il suicidio nel 2005, a 31 anni: si scola una boccia di Chateau Petrus del 1961 da 2mila euro, ci mette dentro dell’insulina, e come macabro dettaglio indossa la maglia di campione del mondo addosso. Non aveva mai vinto la corsa iridata, nonostante nel 1999 fosse il grande favorito. Scrive una lettera spiegando di non volere autopsie, e dopo essersi iniettato del tranquillante aspetta che arrivi il momento fatidico. «Non lasciate che io apra gli occhi». Lo salva la madre, anche qua per un pelo. 

Lo consideravano l’erede di Eddie Merckx, e d’altronde suo zio Jean-Luc ci aveva anche corso assieme, seppur non nello stesso team. «Mai visto un talento così», si sbalordiva Johan Bruyneel, direttore sportivo di Lance Armstrong alla US Postal, alla Discovery Channel e all’Astana. Dall’altra parte, i bisbiglii: «Però finirà male, poco ma sicuro». Il padre: «Avrei dovuto stargli più vicino, ma rifiutava qualsiasi autorità». E intanto pensava di internarlo in una clinica psichiatrica di Ypres.

Una delle sue ultime squadre è la Mitsubishi, che lo paga una miseria (25mila euro all’anno, roba da gregario infimo), ma la bici è tutto per lui. Nel 2009, nell’ultima sgambata della nazionale belga prima del Mondiale di Mendrisio, Frank è lì: naturalmente non convocato, però in gruppo, almeno provandoci. Vive in Italia da tempo, appena fuori Milano, fa avanti e indietro col Belgio, non ha più i capelli ossigenati come ai bei tempi, si ritaglia per quanto può un’esistenza anonima. 

“Sono una nuova persona”, dichiara a un giornalista tedesco, Daniel Friebe, in quei giorni di Mendrisio. “Come ho fatto? Non c’è terapia, le cose vanno meglio e basta. Ora sono pulito, sto molto attento alle feste, controllo sempre ciò che gira”. Morirà di lì a pochi giorni, la vacanza in Senegal, l’ultima notte tra alcol e prostitute, abbandonato nel suo letto dopo l’ennesima serata di bagordi. Gli ruberanno anche 300 euro, e i due telefoni cellulari che si era portato con sé. 

Lascia due figli: Cameron e Margaux. Stava per compiere 35 anni. Dalla moglie Sara aveva già divorziato. L’autopsia, quella che non voleva gli venisse praticata, rivela delle punture sul braccio sinistro.

I troppi rimorsi di Dimitri de Fauw

Il ciclismo rimane uno sport dove la solidarietà trabocca. Causare la morte di uno di loro, anche senza conoscerlo, negli animi più sensibili può avere conseguenze tremende. 

Gand, 26 novembre del 2006: si sta correndo una Sei Giorni. Il velodromo Kuipke, un santuario della bicicletta, è come sempre stracolmo, in pista ci sono i migliori. Tra questi, Isaac Galvez, catalano di 31 anni, due volte campione del mondo della specialità Americana, dove si corre in coppia e ci si dà il cambio a mo’ di fionda, come se fosse una staffetta. È il quinto dei sei giorni di gare, tutto sembra tranquillo. Galvez corre con Joan Llaneras, insieme indossano la maglia iridata perché in primavera a Bordeaux hanno conquistato il titolo: è uno specialista della pista, su strada ha accumulato dodici successi in corse minori e come miglior risultato al Tour de France ha un quarto posto in una tappa del 2006, la Huy-Saint Quentin. 

L’Americana può essere pericolosa se sei distratto ed è proprio ciò che succede a cavallo della mezzanotte quando Galvez si scontra con un corridore belga, Dimitri De Fauw. Lo spagnolo passa davanti al rivale, è una frazione di secondo, tra la quinta e la sesta posizione, quindi un po’ nelle retrovie, Isaac incrocia la sua traiettoria con Dimitri e perde il controllo della bicicletta a 50-55 chilometri orari, dopo che i manubri si sono impigliati tra loro. Si schianta contro una ringhiera di protezione a bordo pista: l’impatto è violento, Galvez muore sul colpo praticamente, il cuore e i polmoni perforati dalle costole andate in mille pezzi, emorragia interna fatale, inutile il trasporto in ambulanza all’ospedale di Gent, assieme a De Fauw, caduto pure lui, ma senza conseguenze. 

Anche il belga, soprannominato “Tarzan”, è un pistard, un po’ meno forte di Isaac; inizi alla Quickstep senza grossi risultati, una manciata di titoli nazionali su pista, la sua vita cambia radicalmente a partire da quel 26 novembre. Sente della morte di Galvez mentre è in ospedale, e due medici lo stanno curando senza sapere che proprio lui è stato l’altro ciclista coinvolto. Il suo polso inizia a correre a mille, gli organizzatori della Sei Giorni, che nel frattempo hanno devoluto alla moglie di Isaac i premi della manifestazione e gli incassi del velodromo, tranquillizzano Dimitri, gli dicono che non ha nessuna colpa. “Non pensarci più”. Impossibile, però. 

Da quel momento piomba nella depressione, anche se la dissimula continuando a correre nelle varie Sei Giorni. Non parla con nessuno dei suoi problemi, fino al 6 novembre del 2009, quando lo trovano morto in casa: suicidio. Appena 48 ore prima si era classificato settimo a Grenoble assieme al danese Marc Hester. Tornando a Gand in macchina con gli amici Iljo Keisse e Gianni Meersman si erano dati appuntamento per andare ad allenarsi di lì a pochi giorni. “Ti chiamo io”, dice De Fauw a Keisse lasciandolo sull’uscio di casa, e riparte. L’indomani lo trovano morto nel suo appartamento. Mancavano poche settimane al terzo anniversario della tragedia costata la vita a Galvez. 

«Come posso superare questa cosa?», aveva esclamato tra le lacrime Dimitri quel tremendo giorno. Col tempo aveva anche accusato i suoi ex compagni della Quickstep di fare uso di sostanze dopanti, uscendo un po’ dal grande giro. Il giorno successivo alla notizia della morte di De Fauw un altro sportivo, ben più famoso, si toglie la vita per depressione, gettandosi sotto un treno: il portiere della nazionale tedesca, Robert Enke. 

Armand de Las Cuevas aveva iniziato ad andare in fuga già da dieci anni, da quando si era lasciato alle spalle l’Europa per trasferirsi all’Isola di Riunione, nell’Oceano Indiano, lontana migliaia e migliaia di chilometri. Luogo di nascita di Roland Garros, asso dell’aviazione di professione e nome di uno degli Slam di tennis dopo il suo abbattimento durante la Grande Guerra.

“Suicidio in casa”, lo scarno comunicato per annunciare la notizia. “Il ciclista più talentuoso della sua generazione”, il ricordo dei giornali francesi. L’ultima delle nostre “malemorti” è passata rapida come il soffio del vento, il giorno prima della Clasica di San Sebastian 2018 vinta da Julien Alaphilippe; molti corridori, in quel sabato assolato, indossano una fascia nera al braccio in ricordo di un ex collega che aveva conquistato la corsa basca nel 1994. Un irregolare, un ribelle, uno che “cercava il suo posto nel mondo”, senza trovarlo.

Cognome spagnolo, ma francese, De Las Cuevas nasce nel 1968 a Troyes, terra di champagne. Da piccolo vorrebbe fare il pugile, prima di scegliere la bicicletta praticamente obbligato dal padre, basco di Bilbao; ma anche in sella è come se fosse sul ring, o per strada, dove ha una piccola gang di amici maneschi. Il problema è che gli avversari a volte saranno i suoi stessi compagni di squadra. 

Talento cristallino, Armand in realtà è un ragazzo timido, che si sfoga durante le corse. Per migliorarsi a cronometro disegna dei tracciati per conto suo e li percorre decine di volte, tentando di battere il suo tempo precedente. Dopo essersi trasferito da Troyes a Bordeaux, entra nella Reynolds a 21 anni, il team che poi cambierà nome diventando la Banesto, la corazzata di Miguel Indurain. Lo mettono sotto contratto nel bar del teatro di Bayonne, sembra un libro di Charles Dickens, la strada come palcoscenico. Un lieto fine per un ragazzo che non ha mai studiato se non controvoglia, ex dipendente di una carrozzeria e addirittura venditore di funghi in società con un amico (“Facevamo gli stupidi in realtà”). 

Nel 1990 è bronzo ai Mondiali nell’inseguimento individuale, alla Vuelta a Asturias vince una delle tappe più dure con una delle ruote mezza bloccata dalle ganasce del freno, senza avvisare nessuno, nemmeno i meccanici, che si accorgeranno del guaio a notte fonda. Un anno dopo è campione di Francia nella corsa in linea che si corre in Borgogna, non lontano da casa: finita la gara, subito a Bordeaux, in macchina, centinaia e centinaia di chilometri per raggiungere sua figlia piccola, Priscilla, e festeggiare con lei. Fa niente che con la moglie si sia già separato. 

Può uno così ridursi a portare le borracce, seppur a uno dei più grandi di sempre? Al Giro del 1991 dopo la tappa che finisce a Sorrento ritorna il pugile: rissa con il colombiano Ortegon dopo il traguardo, la direzione lo caccia e il direttore sportivo Echevarri lo “shampa”: “No mas”, basta, altrimenti verrà cacciato dalla squadra. Anche perché con quel codino sulle spalle, santo cielo, ma stempiato davanti, e le candele di incenso nella sua camera d’albergo sempre orientata a ovest: ci vorrebbe un po’ di disciplina.

Invece al Giro del 1992 il suo lavoro è egregio, indossa la maglia bianca di miglior giovane per sei giorni, arriva secondo dietro al suo capitano nella crono di Sansepolcro che di fatto sancisce, dopo una settimana, il dominio di Indurain, che a un certo punto è leader in tutte le classifiche (generale, montagna, punti e intergiro). Quella è una stagione fondamentale per il navarro, che vuole tentare l’accoppiata Giro-Tour ed entrare nella leggenda del ciclismo: in Italia tutto fin troppo facile, in Francia c’è più da sudare ma alla fine la missione è compiuta. 

De las Cuevas si conferma ottimo cronometrista: è quinto nel prologo di San Sebastian, ma soprattutto secondo nella lunghissima (65 chilometri) prova contro il tempo in Lussemburgo. Indurain è di un altro pianeta (sorpassa perfino Laurent Fignon partito sei minuti in anticipo: “Come una schioppettata”, ammetterà il francese, penalizzato pure di dieci secondi per essersi messo in scia al navarro), lui arriva “primo tra gli umani”, di nuovo, come a Sansepolcro, a 3′. In realtà gli era stato chiesto di risparmiarsi in vista delle montagne, ma se n’era bellamente fregato: scelta che pagherà, crollando sulle Alpi, dove Indurain andrà in maglia gialla resistendo agli attacchi forsennati di Claudio Chiappucci. Finito fuori tempo massimo quando invece di solito in altura sapeva dire la sua, De las Cuevas non potrà partecipare all’ultima crono di Tours, ma per fortuna la Banesto può celebrare la storica doppietta.

L’inquietudine e le scelte imposte dall’alto lo tormentano anche nel 1993. Al Giro c’è la cronoscalata del Sestriere, la scena è la stessa del Lussemburgo. Armand vuole farla al massimo, Echevarri gli chiede di risparmiarsi per aiutare Indurain nella tappa successiva, le insidie sono ancora tante: la trattativa prosegue e alla fine il direttore sportivo sembra cedere. Peccato che al momento della partenza della crono De las Cuevas invece del 55×11 si ritrovi il 53×11: un tradimento bello e buono. La vendetta è terribile e segreta: crono ad andatura cicloturistica e il giorno dopo, nella decisiva tappa verso Oropa, si stacca volontariamente già da subito. Indurain salva la ghirba per 52 secondi, tanto è il distacco finale del lettone Piotr Ugrumov, che lo attacca ma non gli toglie la maglia rosa: il Giro d’Italia è del navarro, che realizzerà ancora un’accoppiata col Tour, ma Armand è un separato in casa Banesto. “Se ti trovi un’altra squadra bene, altrimenti con noi non correrai più”, gli ringhierà a brutto muso Echevarri durante i festeggiamenti, annunciandogli il licenziamento. 

E De las Cuevas, “Il gitano”, come viene soprannominato, la squadra nuova la troverà: la Castorama di Cyrille Guimard, smaliziatissima vecchia volpe, ex direttore sportivo dell’era d’oro di Bernad Hinault. “Mi ricordi Fignon, solo che lui ha vinto due volte il Tour”, gli dice il massaggiatore. Lì in compenso può fare il capitano, basta reggere il moccolo a Indurain (“Non si sapeva mai quello che pensava, poteva avere le borracce vuote e non chiedere niente, nemmeno il rifornimento”, dirà di lui Armand in un’intervista del 2002). Al Giro d’Italia del 1994 è nono nella generale, indossa per un giorno la maglia rosa e ammette: “Ho rivisto la luce”. Una bronchite lo toglie di mezzo al Tour quando è quarto, a sei tappe dalla fine, ma conquista la Clasica de San Sebastian e la Vuelta a Burgos in estate.

In realtà tornerà alla Banesto, ma solo dopo il ritiro di Indurain, nel 1997. Curiosamente in quella squadra c’è un altro dei nostri “morti male”, Chava Jimenez. Fa suo il Giro del Delfinato del 1998, confermandosi come mina vagante nelle corse a tappe brevi. È l’ultimo acuto, a trent’anni si ferma dopo aver vissuto il ciclismo forse un po’ controvoglia. “Non mi sono mai sentito a mio agio, non capisco perché la gente ci ammiri come se fossimo dei cantanti famosi”, spiegherà al momento dell’addio. In compenso torna alla boxe, il primo amore, disputando tre incontri: ne vince due, perde l’altro. “Ma non lo faccio per menare, io cerco il bel gesto, la tecnica”, scherza.

Lo sporadico ritorno del 2006, con una licenza amatoriale della Guadalupa, finisce con una squalifica di sei mesi per doping. Prende parte nel frattempo a gare esotiche come il Tour de Mauritius, dove sgomita un giovane keniano alto e magro che si chiama Chris Froome, e che conquista la corsa. Ha già lasciato alle spalle la Francia, l’Europa, i grandi palcoscenici: come un moderno Paul Gauguin, insomma, la scelta è netta. Non dipinge capolavori, semplicemente scompare. 

Riservato, molto credente e fatalista, in una delle sue rare interviste dopo il ritiro dichiarerà: «È questione di karma. Ogni volta che stavo arrivando in cima, è successo qualcosa che mi ha rispedito in fondo alla fila. Forse non era destino».

Alessandro Ruta, milanese, 1982. Giornalista (Mediaset, Il giorno, Gazzetta dello sport) e direttore sportivo di una squadra dilettantistica (Vulcano k.e.). Ha scritto cinque libri (Confessioni di un milanista - Urbone, L'impero del basket - Italica, Giocare e vincere a Fantasfida e ai daily fantasy sport - Apogeo Feltrinelli, I bambini mi chiamano Ancelotti - Urbone, La pagina mai scritta - Augh).

È arrivato il momento di fare un ragionamento sulle nostre regole, ma anche sulla nostra sensibilità.

Il ciclista italiano ha scritto la storia frantumando il Record dell’Ora.

Il ciclista belga ha chiuso una grande stagione con la vittoria dei Mondiali.

Momenti che rimarranno impressi al di là delle vittorie.

Lo abbiamo chiesto a Fernando Escartin, direttore tecnico della Vuelta.

La regione spagnola vuole l’indipendenza calcistica, ma le speranze non sono molte.

Il programma televisivo che ha rotto il racconto del calcio.

Nel 2000 fu una partita dell’Udinese in Coppa UEFA a fare luce sullo scandalo dei passaporti falsi in Serie A.

La storia romanzesca di Luiz Silvio Danuello.

Come si passa da padroni del mondo a perdere ogni cosa nel giro di poche settimane.

Un odio che ai quarti di finale vedrà la sua resa dei conti.

Nella nuova puntata di Classici abbiamo riguardato Svezia-Brasile, finale del Mondiale del 1958.

Emiliano Martinez ha salvato l’Argentina 18 secondi prima che finissero i supplementari.

Cosa può dirci il calcio sulla creatività umana.

Magari non ce ne siamo accorti, ma il calcio non è rimasto fermo in queste settimane.

Il danese è riuscito nell’impresa di battere al Tour de France un avversario che sembrava non poter perdere.

Il dominio dello sloveno sul ciclismo sembra non avere limiti.

Per la maglia gialla tutti all’inseguimento di Tadej Pogacar.